martedì 18 marzo 2008

Tibet di sangue


Un caro saluto a tutti gli amici del Blog. Gli eventi che in questi giorni stanno insanguinando il Tibet non rappresentano solo una sfida per il governo cinese, chiamato a disinnescare una rivolta che minaccia l’equilibrio interno del paese a pochi mesi dall’inizio delle olimpiadi di Pechino. Gli scontri, che oppongono monaci buddisti e civili tibetani alle forze di sicurezza cinesi (a Lhasa e in altre zone della regione autonoma cinese del Tibet) hanno confermato anche il chiaro imbarazzo della comunità internazionale nell’affrontare i problemi connessi alla causa tibetana.

Il Tibet, che dal XIII secolo in poi ha alternato periodi di indipendenza ad altri di dominio cinese, è stato occupato militarmente dalla Repubblica Popolare Cinese nel 1950. Spinto da considerazioni di natura geopolitica (e non certo ideologica), Mao Tse-Tung lo voleva trasformare in un baluardo naturale contro eventuali invasioni da occidente. Le proteste scoppiate in tutta la loro virulenza nei giorni scorsi (le più importanti da quelle del 1989), hanno coinciso con la commemorazione della repressione del 1959, quando l’esercito cinese sedò nel sangue la prima grande rivolta dei tibetani contro la dominazione di Pechino.

All’epoca il Dalai Lama (la guida spirituale e politica del buddismo tibetano), fu costretto a fuggire e a stabilirsi a Dharamsala, nell’India settentrionale, dove fu formato anche un governo tibetano in esilio. I tentativi di giungere ad un compromesso tra le due parti sono sempre naufragati. Il Dalai Lama rifiuta con fermezza l’etichetta di “leader separatista” affibbiatagli dai cinesi affermando “di non aspirare all’indipendenza del Tibet, ma solo ad una sua maggiore autonomia all’interno della sovranità della Cina, alla quale spetterebbe il controllo della politica estera e di difesa”.

Con tutta probabilità (e con buona pace dello spirito olimpico) anche l’odierna sollevazione rischia di essere schiacciata dalle autorità cinesi con la forza. Pechino ha già dichiarato di voler condurre una “guerra di popolo contro la cricca separatista del Dalai Lama”. Colonne di mezzi militari cinesi sarebbero già in marcia verso il Tibet, mentre le autorità del Nepal parlano addirittura di agenti cinesi che opererebbero all’interno del loro territorio per bloccare possibili iniziative di rifugiati tibetani lungo il confine. Pechino non può permettersi cedimenti sul Tibet. La sua integrità territoriale è sempre a rischio, minacciata com’è da pressioni centrifughe interne (ad esempio nello Xinjiang) e da tensioni internazionali come quella sullo status di Taiwan.

I fatti di Lhasa hanno già fornito a Taipei una ghiotta occasione per i primi attacchi. Frank Hsieh, il candidato governativo alle presidenziali di Taiwan del 22 marzo, considera quanto sta accadendo in Tibet un test cinese per saggiare l’applicazione delle legge anti-secessione, che Pechino ha varato nel 2005 per impedire l’indipendenza formale di Taiwan. Bisogna anche pensare che Hsieh (indietro nei sondaggi rispetto al candidato nazionalista Ma Ying-jeou) ha condotto finora la campagna elettorale sconfessando la linea marcatamente indipendentista dell’attuale presidente Chen Shui-bian, suo compagno di partito.

La comunità internazionale ha fatto sentire la propria voce. Come per la crisi nell’ex Birmania dello scorso settembre, ha però assunto un approccio improntato alla massima cautela. Mentre esponenti della società civile chiedono il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino (peraltro non condiviso dallo stesso Dalai Lama), gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone e l’Australia chiedono al governo cinese di esercitare moderazione, di liberare i detenuti politici, di rispettare le aspirazioni e tradizioni culturali del popolo tibetano e di aprire un concreto dialogo con i dimostranti e il Dalai Lama. La cosa, personalmente, mi pare abbastanza azzardata.

L’India si è unita al coro internazionale di proteste, ma allo stesso tempo ha bloccato con il pugno di ferro le manifestazioni dei rifugiati tibetani organizzate all’interno dei propri confini. Tutto ciò mi è sembrato un fulgido esempio di equilibrismo politico, dettato da bieche esigenze strategiche. Dal 1962, Delhi è impegnata in una disputa di confine con Pechino e negli ultimi anni ha avviato un processo di apertura diplomatica ed economica con il suo potente vicino. L’ospitalità indiana al Dalai Lama e al governo tibetano in esilio è sempre stata motivo di dissidio tra i due paesi, anche se il governo indiano ha strappato alla guida spirituale tibetana la promessa di non organizzare manifestazioni anticinesi sul proprio territorio.

Gli Stati Uniti mi sono sembrati quelli maggiormente impacciati, alla luce anche della recente pubblicazione dell’annuale rapporto sul rispetto dei diritti umani del dipartimento di Stato, che non ha inserito la Cina tra i dieci peggiori paesi al mondo. Nell’attuale congiuntura politica ed economica, Washington non può permettersi un nuovo “cataclisma geopolitico”, perché tale dovrebbe considerarsi un eventuale processo di destabilizzazione del delicato mosaico cinese.

La strategia di Washington, dunque, sembrerebbe più orientata al mantenimento dello “status quo” in Asia, come dimostrano le prese di posizione su Corea del Nord e Taiwan. Gli USA fanno grande affidamento sulle riserve valutarie di Pechino (che possiede la quota maggiore del debito estero americano) per finanziare il proprio deficit, nonché sulla capacità della Cina di assorbire le esportazioni mondiali, anche delle aziende americane. Nelle relazioni con la Cina, pertanto, gli USA non possono abbandonare il paradigma del “responsible stakeholder”, specialmente in un momento in cui l’economia statunitense è incalzata dal fantasma della recessione.

A questo punto sono costretto a fare una parentesi per spiegarvi il significato dell’ultima frase. Nel settembre 2005, in un discorso al National Bureau of Asian Research, l’allora vice segretario di Stato USA, Robert Zoellick, incoraggiò la Cina ad assumere il ruolo di “responsible stakeholder” nel sistema internazionale. Vale a dire quello di un “attore globale impegnato a cooperare con gli Usa nella lotta al terrorismo, a prevenire la diffusione delle armi di distruzione di massa, a promuovere il libero commercio e a collaborare in ambito energetico per rafforzare lo stesso sistema che stava alla base della sua ascesa politica ed economica”. Ecco fatto.

Anche i fautori del contenimento della Cina dovrebbero considerare il fatto che Washington non ha le risorse politiche ed economiche per cavalcare un processo di disgregazione della Repubblica Popolare Cinese. Il crollo dell’Unione Sovietica e del suo sistema imperiale è stato gestito grazie all’aiuto degli alleati europei, che si sono sobbarcati parte dei costi di riassorbimento dell’ex blocco comunista nella “comunità euro-atlantica”. Senza dimenticare che, alla fine degli anni Ottanta, l’URSS era una potenza in declino, al contrario dell’attuale Cina.

L’ipertrofico impegno americano in Medio Oriente esclude un’attenzione a tutto campo di Washington in Asia orientale. Il “Comando del Pacifico” ha recentemente lamentato la drammatica penuria di forze per poter affrontare anche impegni di ordinaria amministrazione. Sono gli stessi teorici del contenimento cinese ad ammettere che questo potrebbe effettivamente realizzarsi solo cedendo in appalto a vecchi e nuovi amici (Giappone, Australia, Corea del sud e India) gran parte degli sforzi lungo il “Rimland eurasiatico”.

Sarà difficile, dunque, che gli USA sfruttino la crisi in Tibet e tutti gli attriti geopolitici che covano sotto la cenere dell’autoritarismo cinese, per ostacolare l’ascesa di Pechino. Secondo diversi osservatori, per minimizzare il costo economico e politico di un suo intervento di stabilizzazione in Asia, Washington dovrebbe vestire i panni di un “onesto negoziatore”, impegnato più a comporre le crisi, accrescendo così il proprio prestigio, che a presentarsi come una potenza dedita a difendere il proprio status egemonico.

Capisco perfettamente che questo Post possa risultare “indigesto” a chi non si è mai interessato di geopolitica. Tuttavia ritengo importante affrontare anche questi temi perché da essi scaturirà l’equilibrio mondiale dei prossimi decenni. Per rendere il tutto più chiaro possibile, ho inserito alcuni “link” che vi potranno essere utili a per comprendere i passaggi più “ostici”.

Ringrazio di cuore coloro che hanno letto questo documento e tutti gli amici che seguono giornalmente il Blog con tanto affetto! Per tutti l’appuntamento è a domani per un nuovo Post.

Un abbraccio, GuruKonK.




Nell’immagine il Dalai Lama, leader spirituale e Nobel per la Pace 1989.


Fonte: E.Scimia, esperto di geopolitica e grande conoscitore della questione tibetana!

14 commenti:

Anonimo ha detto...

Sapete cosa trovo strano? Che nel giro di poche settimane la comunità internazionale utilizzi due pesi e due misure per gestire problemi simili.

Poco tempo fa, per esempio, hanno fatto in fretta a riconoscere l'indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia. Ora, invece, le rivendicazioni del Tibet diventano addirittura materia irricevibile!
In fondo i tibetani hanno maggiori ragioni culturali, sociali, etniche e storiche per volere un pò di autonomia dalla Cina, rispetto a quelle che avevano i kosovari.

Già, a me sembra strano. Ma non troppo.

Anonimo ha detto...

Premetto che il post di oggi è davvero grandioso! Complimenti a gurukonk!

Poi... capisco benissimo l'osservazione di Max. Non ha torto, i tibetani hanno più "diritto" all'autonomia (non all'indipendenza, sia chiaro) rispetto a quello che avevano i kosovari per attuare la secessione da Belgrado.

La differenza è che la Cina fa molta più paura della Serbia.
Per prima cosa si tratta di una vera e propria superpotenza militare con tanto di bomba atomica (e un pessimo senso dell'umorismo, per di più!).
Secondariamente la Cina rappresenta un partner economico vitale sia per gli USA che per l'UE. In un periodo come questo, così vicino ad una recessione devastante, l'economia occidentale non può fare a meno degli accordi stilati con Pechino.
Terzo: la Cina è membro permanente del consiglio di sicurezza delle nazioni unite, quindi possiede (al pari di Russia, USA, Gran Bretagna e Francia) un preziosissimo diritto di veto su ogni risoluzione.

Insomma, in un momento del genere con la Cina c'è davvero poco da scherzare!

Anonimo ha detto...

Bello il post, davvero fatto bene! Max e Robiiii hanno pubblicato due ottime riflessioni, dicendo quello che in fondo avrei voluto scrivere io.... Accidenti!!!!!!!

Aggiungo solo che le rivolte in Tibet (che sono state fermate dalla polizia con estrema violenza) sono iniziate mentre a Pechino si (ri)eleggeva Hu Jintao come "uomo forte" del paese.

Naturalmente Jintao non ha fatto attendere i dimostranti, infatti l'ordine alla polizia di intervenire con durezza è partito proprio da lui! Insomma, per i monaci buddisti si preannuncia un quadriennio infernale!

Ciao a tutti bella gente!!!!!!!!

Anonimo ha detto...

WOW....grandissimi i miei maschietti porcellosi!

bacio bacio.......

Anonimo ha detto...

@ Angie

Guarda che io non mi ritengo un maschietto porcelloso!

Io sono un grandissimo porcone! Ti prego di prenderne nota!

;-)

Anonimo ha detto...

Dopo aver letto questo post mi sono interessato un pochino alla questione del Tibet.

Credevo che il "casino" attualmente in atto fosse iniziato perchè i cinesi avevano attaccato i monaci buddisti. Invece mi sbagliavo! I tibetani sono scesi in piazza per protestare con l'occupazione in atto dal 1959 e alcuni gruppi hanno attaccato le attività cinesi. Hanno incendiato negozi, scuole, studi medici, ecc. Insomma, tutto quello che ricordava ai tibetani il potere di Pechino è diventato un bersaglio. Ho visto al TG che numerosi civili cinesi sono stati bruciati vivi!

Naturalmente la polizia non ha tardato a rispondere con grande durezza e, come purtroppo spesso accade, ci sono "scappati" parecchi morti.

Di solito dai tibetani non ci si aspetta tutta questa violenza!

Anonimo ha detto...

Il Dalai Lama è rimasto "spiazzato" dalla violenza messa in atto dai tibetani e non ha tardato a chiedere la fine degli scontri. Come sempre accade le vittime (sia da parte cinese che tibetana) sono innocenti.

Anonimo ha detto...

se un uomo come il dalai lama è arrivato a "minacciare" di dimettersi se i tibetani non cesseranno le violenze significa che la situazione e gravissima!

perchè non la smettono? non capiscono che non potranno mai battere la cina? in più come avete già spiegato voi gli usa, l'unione europea e l'onu hanno le mani legate!

Anonimo ha detto...

@ Jack-Jack

lo so che sei un gran porcone.... si vede ad occhio nudo.......

;-)))))

GuruKonK ha detto...

Ciao a tutti.

Intervengo nell'area dei commenti per complimentarmi con voi! Non mi aspettavo che foste così esperti nella "Questione Tibetana"!

Siete davvero bravissimi, i vostri commenti hanno arricchito tantissimo il post! Con degli utenti come voi diventa bellissmo tenere un Blog!

Grazie, grazie e ancora grazie!

Anonimo ha detto...

Sei davvero gentile gurukonk!
Da parte mia posso dirti che di determinati argomenti ho cominciato a interessarmi leggendo i tuoi post. Quindi credo che debba essere io a ringraziarti per avermi "stimolato" a conoscere delle cose che prima ignoravo volutamente. Credo che il tuo più grande pregio sia quello di sapere affrontare anche i temi più "complicati" in modo seplice e comprensibile anche dai "non esperti"! Guarda che è un bel complimento....

Ciao!

Anonimo ha detto...

quoto randy...

già già....senza dubbio....

Anonimo ha detto...

complimenti x il blog di oggi è davvevo stupendo ...
... i tibetani hanno piu' diritto all'autonomia che i kossovari ...
...e come dice bene robiiii,la Cina fa decisamente piu' paura della Serbia ...
... premetto che non sono razzista ...
ciao a tutti

Anonimo ha detto...

Il Dalai Lama è l'uomo più straordinario del mondo! Anche davanti alla dura repressione cinese continua a predicare la non-violenza! Dice che sono proprio i buddisti i primi a dover interrompere la rivolta perchè l'uso della forza porterà solo nuovo sofferenze!